Chiudere con forza le labbra o tirar fuori la lingua impedendo al cibo d’entrare, procurarsi il vomito, lasciare la  bocca socchiusa facendo cadere il contenuto, girare la testa di lato, respingere il piatto.

Il rifiuto del cibo in infanzia è uno dei comportamenti che genera uno stato di ansia e preoccupazione in molti genitori e costituisce una categoria diagnostica  ad alta prevalenza documentata tra l’altro dai numerosi ricorsi al pediatra ed a professionisti esperti in dinamiche psicopedagogiche.
Perché spesso un bambino si rifiuta di mangiare? Si tratta di un argomento di estrema complessità che di certo non può essere trattato in un breve articolo. Mi limiterò a fare solo talune osservazioni rimandando per gli approfondimenti alla vasta letteratura disponibile.
Il rifiuto del cibo costituisce una problematica che varia ovviamente in relazione all’età del soggetto (allattamento materno, svezzamento, ingresso al nido o alla scuola dell’infanzia, etc..) alla sua indole e al suo temperamento. Una volta esclusi i fattori di tipo organico e i disturbi di rilevanza clinica è importante sapere che l’alimentazione in età infantile è teatro dell’emozione e dei vissuti che connotano la relazione genitore-figlio; ciò a significare che spesso alla base dell’inappetenza vi è da parte del bambino un desiderio di comunicare un disagio cui gli adulti devono dare una risposta adeguata.
Il momento dell’alimentazione, infatti, non è solo finalizzato alla nutrizione, ma è il luogo privilegiato di uno scambio relazionale tra madre e bambino,  intendendo che oltre che degli alimenti  il figlio si nutre anche delle emozioni e delle affettività che gli trasmette la figura di accudimento.
Quello che passa attraverso questo canale raggiunge un livello profondo e se utilizzato in modo appropriato può proteggere il bambino da eventuali disagi e blocchi. Basti pensare al momento dell’allattamento al seno: il neonato sperimenta un grande piacere nel sentirsi riempire da una sostanza calda e nel contempo si sente contenuto in un abbraccio che lo accoglie tutto. L’alimentazione non è solo il simbolo del legame madre- figlio, ma anche del loro successivo e progressivo distacco. Il momento dello svezzamento, infatti, si configura come un primo tentativo di fisiologica separazione di questa diade e di perdita di un contatto così intimo che verso il secondo ed il terzo anno di vita del bambino si sostanzia nel passaggio all’alimentazione autonoma.

I bambini di questa età spesso mostrano l’evidente desiderio di nutrirsi da soli: impugnano come possono le posate e portano il cibo alla bocca.

Può accadere in questi casi che la figura di accudimento assuma un atteggiamento intrusivo, ostinandosi ad imboccare (magari solo per accelerare i tempi del pasto) e ciò può determinare un comportamento oppositivo attraverso il quale il bambino esprime il bisogno di sentire rispettati i suoi confini.
A questo punto solitamente la madre attua una sorta di “pressing”, cerca di far giocare il figlio in modo tale che, approfittando dei momenti di distrazione possa imboccarlo, oppure lo alimenta durante le ore di sonno, caricando all’inverosimile il biberon; ci sono donne che precipitano in un tale stato d’ansia, perché temono che il figlio possa “morire di fame” che lo costringono ad aprire la bocca, magari turandogli il naso.
Si configura uno scenario di lotta, connotato da stress e da grande tensione, dal quale spesso è il bambino ad uscire vincitore. Attraverso il rifiuto e la contrattazione egli riesce ad acquisire maggiore potere decisionale sull’ambiente familiare condizionando a suo piacere la relazione con la figura di accudimento.
Si innesca così un circolo vizioso: il bambino percepisce il cibo come un’arma usata contro di lui  e rifiutando anche gli alimenti che prediligeva incrementa le paure della madre. Alla fine, il figlio userà il cibo per richiamare l’attenzione su di sé o per punire i genitori. Vi è dunque un intima correlazione tra le cause dei disturbi alimentari in età precoce e l’atteggiamento apprensivo ed ansioso della madre. In questi casi sarà necessario rivolgersi ad uno specialista affinché si possa accedere ad una chiara lettura del disagio per la definizione di adeguate strategie educative.
In un tale scenario variegato, sovente sono erroneamente inclusi anche quei casi di pseudo inappetenza dettati dall’acquisizione, da parte dei bambini, di errate abitudini alimentari quali il ricorso frequente a snack “spezza fame” durante l’intero arco della giornata, o il non rispetto degli orari dei pasti, imputabile ai ritmi poco gestibili dei genitori.
Ci sono effettivamente dei bambini che mangiano poco, ma quasi sempre, se andiamo a vedere quanto cibo introducono, ci accorgiamo che assumono calorie a sufficienza: il rischio è che i genitori, preoccupati, pur di farli mangiare, diano loro merendine, succhi di frutta o altri alimenti preconfezionati al di fuori dei pasti, praticando così una dieta scorretta e disordinata.
Può succedere che questi bambini, non educati ad una corretta alimentazione, vedano in parte compromessa la regolazione del ciclo fame-sazietà e sviluppino un atteggiamento solo apparentemente oppositivo in presenza della madre, mentre con altre figure di riferimento, ad esempio la nonna e l’insegnante (più attente al rispetto delle buone prassi) manifestano un normale appetito.